domenica 31 agosto 2008

lunedì 4 agosto 2008

Epic Ride: Monte Gennaro - 11 novembre 2006


Il
Il Giro risale ad un paio di anni fa ma merita di essere riproposto:
[testo a cura di Tuot e foto realizzate da Sandrellos]

La settimana scorre faticosa, ma inesorabile il venerdì arriva puntuale come tutte le altre volte, come tutte le altre settimane, carico di speranze e di sogni verso epiche gesta.

Alla sera, gli occhi socchiusi, affaticati da intere giornate trascorse sulle sudate carte, non impediscono alla mente di compiere i suoi viaggi.

Le telefonate si susseguono a ritmo serrato, e mentre i vestiti da lavoro, ricamati da sartoriali mani, trovano il loro ristoro nell’armadio, scintillanti t-shirt in lycra incontrano la luce del sole al pari dell’arcobaleno che succede al temporale.


È solo in quel momento che i novelli Clark Kent ripongono le penne, infaticabili traduttrici dei loro pensieri, lasciando che il sacro fuoco del freeride bruci nei loro stomaci.

La tensione continua a salire e nel contempo il sogno a prendere forma. Finalmente tra un viaggio di fantasia e ore trascorse al computer su siti specializzati, tra pesantissime conversazioni gravide come saggi di etica alpinistica, la meta viene definita, alta e imperiosa nelle menti dei “tres Amigos” si disegna la cima del MONTE GENNARO.


Ebbene si proprio lui, il Monte Gennaro situato nel Parco naturale regionale dei Monti Lucretili. Un parco la cui ricchezza naturalistica risiede nella particolare configurazione del paesaggio, di tipo spiccatamente pre – appenninico, dove la vicinanza del mare ha concorso alla formazione e alla coesistenza di particolari tipi di biotopi.

L’imponente aspetto del rilievo domina la Campagna Romana, la Sabina e l’agro tiburtino, e contrasta nettamente con il paesaggio interno caratterizzato dalla successione di rilievi modesti, intercalati da pianori carsici e vallecole pascolive che al loro termine vengono interrotti dalla dorsale del Monte Pellecchia.

Nonostante ciò, a conclusione di incomprensibili elucubrazioni il cui valore può essere apprezzato solo da valenti geologi, il gruppo di bikers si forma. Le frenetiche telefonate hanno assolto al loro compito, come il cemento per il calcestruzzo, la passione invalicabile per alcuni, inderogabile per altri di far ruzzolare le proprie grasse ruote in piena libertà tra i boschi del Lazio lega i protagonisti di questa avventura.


Nella nostra decisione si annidano le ombre tipiche del dubbio, abituati, infatti, a sellare le nostre fide cavalcature acciaiose con scarpe da skate e pantaloncini da street, avvertiamo il dolce odore dell’impresa… “questa è robba da alpinisti” ripete freneticamente il più scettico tra noi…


Ma ormai il sasso è lanciato, e mostrando il più classico coraggio, tipico dei bravi di manzoniana memoria, nessuno vuole rinunciare a questa sfida.








L’indomani arriva presto. Il sole nel sorgere cozza sulla finestra, è sabato mattina e la sveglia cantando segna l’inizio dell’avventura, non c’è neppure il tempo per la colazione.


Fortunatamente le energie, già fluiscono copiose nel mio organismo, sarà l’adrenalina che scorre o le notti passate ad allenare il qi, seguendo gli insegnamenti che il vecchio maestro Yoda già diffondeva nel primo capitolo della saga di John Lucas, ma data l’ora la questione lascia il tempo che non trova, il conseguente vuoto permette alle nuove sensazioni di impadronirsi di me.

In garage c’è ancora la biga da caricare, e poi all’appuntamento, come fantasmi in cerca di gloria, ci sono i compagni di avventura da raggiungere, il “folle viaggio” deve cominciare.


Il ritrovo è il solito, davanti al benzinaio. Un luogo mitico che segna l’inizio di ogni cammino, l’inizio di ogni fine settimana, l’inizio del nostro divertimento, la fine dei pensieri fatti di piombo.. riflettendoci credo sia davvero un luogo magico, un posto che lascia spazio alla libertà e alla fantasia, al sorriso e alla nostra voglia di montà du rote solo pè combinà danni..


Giunti all’appuntamento ci guardiamo tutt’attorno con gli occhi ancora abbottonati dal sonno e coi riflessi rallentati, ma l’odore dell’evento già si respira.

Addirittura Sandrellos indomabile combattente dal fare iper polleggiato è inverosimilmente puntuale, Albert “the biker”, strano personaggio che ha imparato prima ad andare in bici che a camminare, suona la carica e io, “Tuot”, biker dall’inossidabile caparbietà, rispondo pronto e sono già in macchina…”daje che se parte”…tutto cospira per il buon esito del giro.


La strada che raggiunge Marcellina è breve e scorre liscia come la catena quando è ben ingrassata. Parcheggiate le macchine al cimitero del paese, cominciamo il rito della vestizione, peraltro piuttosto breve, avendo indossato per il momento le sole ginocchiere e riposto, con certosina attenzione, le gomitiere negli zaini già intasati dalla scorta d’acqua necessaria per compiere il giro.


Da lì, con qualche perplessità, passando per il centro di Marcellina, giungiamo fino al centro informazioni sulla strada che porta a Tivoli, dove sulla sinistra si staglia inossidabile la salita di circa 6 km su asfalto che permette di raggiungere il vero inizio del giro, Prato Favale.


Come tre vecchi, come tres amigos, ce la prendiamo molto comoda e tra racconti di improbabili avventure che assumono i contorni del mito tra il grottesco e il fiabesco, trascorrono imperterriti i minuti che ci separano dal sentiero vero e proprio, a contraddistinguersi nel mentre ci ha pensato Albert “the biker” che mascherandosi con una vena esplorativa, propria dei soli alpinisti del trentino, cercava in realtà solo il pretesto per riprendere fiato, fingendo di trovare immaginifici quanto improbabili sentieri che conducevano nella direzione opposta alla nostra meta.

Raggiungiamo dopo un oretta di pedalata Prato Favale, l’emozione è palpabile, l’asfalto è alle nostre spalle e davanti ai nostri occhi ci sono solo pietre.


“Questo si che è un bel incipit” esclama Sandrellos, fotografo ufficiale che comincia a spararsi le prime foto, meravigliato dalla bellezza del panorama e illuminato da un sorriso simile a quello dell’apetta quando si posa sul suo fiore preferito.

Il giro comincia e le gomme si presentano con cordialità alle pietre del sentiero. Le prime difficoltà non tardano a manifestarsi, ci aspettano almeno 200m di dislivello positivo tutto cosparso di pietrone.

Certo Hans sarebbe contento dei nostri, purtroppo vani, tentativi di pedalare su un terreno così inospitale per i tasselli dei nostri copertoni, ma neppure lo spirito di “No Way”, che solitamente pervade le nostre uscite, sarà sufficiente ad evitarci lunghi tratti a spinta.

È proprio mentre si spinge che il pensiero vola, è in quel momento che nascono le nuove iniziative, è in quell’attimo, che sembra durare quanto la guerra dei trent’anni, che si stringono amicizie e alleanze e come al solito si scopre che il mondo non è poi così grande.. e che la teoria dei sette gradi di conoscenza ha un suo valore reale…


Per fortuna ci pensa Albert “the biker” ad ammazzare il tempo lanciandosi nei suoi più disparati ricordi, di quando ancora esistevano gli elastomeri, di quando le bici pregiate erano solo in acciaio, forse anche di quando le ruote erano di legno e i copertoni un privilegio per pochi, lui e la sua Ritchey questo il leit-motiv che ci accompagna per tutta la parte a spinta.


La Valle Cavalera è pedalabile solo a tratti, in quei tratti gasato dal terreno tecnico ma non impossibile mi imbatto in una discesetta ostica, anzi tossica, per usare un’espressione tanta cara al padre ideatore di questi giri (a cui non si riesce a dare una definizione), con un abile colpo di coda indico la strada e faccio sbagliare la direzione al gruppo.

In tal modo, mi sono guadagnato una volta di più una sonora presa per i fondelli, ed ecco confermata la mia nomea di “leader disoriented”, vabbè il riscatto alla prossima uscita.. forse.. mi ripeto nell’intimità dei miei pensieri…

Con fatica ritroviamo i segnali bianco – rossi che tracciano il sentiero, e affrontiamo un tratturo in leggera salita cosparso di massi pressoché impedalabile, in cui abbiamo il piacere di imbatterci nel custode della montagna, impegnato ad non perdere un fiato per lamentarsi di non poter montare quegli strani animali chiamati cavalli, bassi e tarchiati lenti e robusti (in effetti la sinistra somiglianza con la mia “tomaso” non è sfuggita ai più).


Alla fine del tratturo la fatica ha scavato i muscoli dei polpacci, i tentativi di pedalata cominciano a prender forma e la miracolosa visione del Pratone rende radiosi i nostri volti, ci accorgiamo di essere giunti al punto più alto del giro, intorno ai mille metri o poco più.

Sul Pratone, solitaria, si erge una chiesetta davanti allo spiazzo dai verdi riflessi, e lì poggiamo le bici per riprendere fiato.

L’atmosfera sembra magica, le sensazioni si confondono con i colori di una natura senza rivali, i pensieri svaniscono e rimangono solo i desideri. Il momento sereno si rende propizio per attuare il classico rito della vestizione pre – discesa, come moderni cavalieri indossiamo gambali e gomitiere di plastica, sgranocchiamo barrette energetiche probabilmente scadute, ma preferiamo non saperlo e fingiamo indifferenza, Sandrellos tergiversa mentre scatta foto degne di the collective.


Il gruppo si ricompatta e mentalmente ci prepariamo alla discesa, salvo scoprire che non è ancora arrivato il momento, ma dobbiamo percorrere qualche altro metro in pianura.

L’inverosimile, alle porte, ci stava aspettando, forse colpa dell’altitudine (1030 m ?) o del conseguente poco ossigeno, ma il più esperto tra noi, Albert “the Biker”, l’uomo che imparò prima a pedalare su una Ritchey, poi ad allacciarsi le scarpe, decide di non seguire più le tracce bianco – rosse che contraddistinguevano il “sentiero 301”, di interpretare la cartina a proprio modo, secondo una logica ingegneriestica che non mi è dato capire, di lasciare l’ovvio per l’ignoto.


Grazie a tutto ciò, come per magia, ci ritroviamo in un luogo sconosciuto a cercare discutibili tracce senza forma.

La follia, fortunatamente non dura molto, questa volta, forte della precedente esperienza, in qualità di cantore del gruppo, riporto la saggezza nelle loro menti e il cammino riprende filante come le lamine dei pattini che solcavano il ghiacciaio del monte ormai scomparso, ma che i locals ricordano, in un tempo lontano, avvolgere interamente Prato Favale, (dell’informazione non sono troppo sicuro, ma la Milly, la mia fonte,in quella zona ci è cresciuta, la prendo per vera, non chè la tipa abbia grande credibilità ma..)




Ancora pochi passi e di fronte a noi si manifesta la Scarpellata, un fantastico single track che appare come un profondo vallone che fieramente incide il Monte Gennaro poco a sud della vetta.
Questo sentiero fu utilizzato per millenni per salire dalla Campagna Romana fin al Pratone e presenta un dislivello notevole, ma la pendenza regolare, l’esposizione ad ovest e il bosco che si attraversa rendono la discesa particolarmente piacevole.
Ci siamo! la discesa comincia, un primo tratto molto roccioso impegna a dovere le sospensioni delle bighe e richiede una certa perizia degna di un trialista per lisciarlo.
Ma i tres amigos non deludono, salvo qualche piccolo mio capitombolo (del resto mi farei prima decapitare che poggiare un piede in terra), giungiamo veloci dove il terreno si addolcisce e le pietre si diradano.Da lì in poi è tutto un delirio, curve strette, sculettamenti repentini, bacino sempre in movimento e la filosofia di raidate dei tre si scontra senza coerenza ma con gran divertimento.
Albert rapido come una gazzella sparisce in fretta dalla nostra visuale, non ama particolarmente il tecnico roccioso ma quando c’è da lasciar correre le ruote ha pochi rivali, io preciso come un bisturi non tengo il passo dell’apripista e necessito di qualche riposino.. i polsi mi si cuociono in fretta, Sandrellos questa volta, zavorrato dall’attrezzatura fotografica, non è brillante ma è comunque continuativo come un tamburo nella savana, un vero combattente che non si stanca mai e fa la discesa tutta d’un fiato.
La stanchezza si confonde con la felicità e il sorriso non ci abbonderà più sin alle macchine.
Tornati al parcheggio del cimitero, spossati nel fisico ma rinfrancati nell’animo, smontiamo le bighe e riempiamo le ferrose carrozze che incidono la strada solo grazie alla benzina, l’oro nero che tanti guai causa alla nostra epoca.., e come piccoli rumeni che con le loro roulotte piene di vita abbandonano il campo per correre verso la speranza…noi mestamente, ma col cuore rigonfio di gioia, torniamo a Roma.
Ci sarà presto un altro venerdì, un’altra emozione che aspetta di essere vissuta, un’altra avventura che senza soluzione di continuità già prende corpo nella strada verso casa; ma a casa oggi mi ci sono sentito tutto il giorno tra le cime del Lazio orientale, con la compagnia dei miei amici, e con la gioia che provo ruzzolando in libertà tra i boschi su quello strano oggetto a due ruote che per noi è sinonimo di piacere, per altri di fatica e per gli ignavi addirittura di follia.
Si tutto questo è la nostra vita, anzi è il nostro modo di vivere. Enjoy the riding
ITINERARIO curato da Albert "the Biker"
L’itinerario prevede una salita su asfalto di circa 6-7 km, circa un’oretta di strada con poco dislivello ma molti pezzi a spinta e 45 minuti circa di single-track tecnico e spacca-braccio (dislivello negativo: circa 800 mt).
Compresi i “trasferimenti”, il giro dura 3 ore ben abbondanti.
Il percorso è sempre molto bene indicato con dei segnavia bianco/rossi: se non li vedete più, tornate indietro che avete sbagliato strada! La bici ideale è sicuramente una all-mountain, con una bici più pesante sarebbe consigliabile evitare l’asfalto facendolo su auto, ma lasciata la macchina ci sarebbe da spingere la bici troppo a lungo.Da Marcellina (260 mt) si esce in direzione S. Polo dei Cavalieri. Subito fuori, si trova prima il Centro Visite del Parco sulla destra e, subito prima di una cava abbandonata, si gira a sinistra su una curva a gomito (a spanne è distante circa 1/1.5 km dal paese), in corrispondenza della quale si trova una torretta. Da lì, la strada sale più decisa: proseguite fino alla fine dell’asfalto, dove si trova Prato Favale (830 mt)!
La strada asfaltata è tagliata da diverse discese, non provate, ma a occhio e croce belle tecniche: con una bella full da dh/fr probabilmente ci si può divertire con le risalite meccanizzate. Alla fine dell’asfalto inizia una sterrata che in breve porta a un primo bivio: come segnalato in bianco-rosso, si sale a piedi sulla strada pietrosa di destra. Dopo qualche saliscendi molto pietroso (la cui percentuale di percorribilità dipende da voi!) si arriva a una valletta alberata, d’inverno probabilmente molto fangosa. Mantenetevi sulla destra e attenzione ai segnavia, non ben visibili: dopo circa 150 metri vi indicheranno un single-track pietroso che sale sulla destra. Da qui si tratta di spingere quasi sempre la bici per circa 40 minuti. Superati degli spuntoni calcarei, la strada finalmente torna pedalabile. Lasciato a destra il sentiero per Campitello, si continua verso sinistra in una faggeta, prima in pianura e poi in leggera salita.
Alla fine si sbuca sul bellissimo Pratone (1024 mt), con una chiesetta diroccata sulla destra. In corrispondenza della chiesetta, si trova un sentiero perpendicolare a quello che stavate percorrendo: girate a sinistra, avrete monte Gennaro avanti sulla vostra destra. Dopo qualche centinaio di metri, sulla destra e lontano dal sentiero, dovrebbe staccarsi un primo sentiero che porta alla vetta. A meno che non vogliate raggiungere la vetta, rimanete sul sentiero fino a una biforcazione, dove prenderete il sentiero a destra, sempre segnalato in bianco-rosso.
Tenete gli occhi aperti, dovrete piegare sulla destra dopo poche centinaia di metri (anche qui è segnalato, ma il segnavia si vede poco bene). A questo punto il sentiero inizia a scendere: abbassate la sella, non vi servirà più! Poco prima che il sentiero (sul lato sinistro) diventi più esposto, si stacca il secondo sentiero che porta in vetta.
Da questo punto in poi, la discesa è un continuo singletrack su terreno sassoso, sempre più pulito e veloce mano mano che si scende. Alla fine del singletrack, aprite il cancello e continuate la discesa, che adesso è ben più larga e ghiaiosa. Rimanete sempre sulla strada principale, che mano a mano diventa percorribile anche in auto e vi riporta a Marcellina.

Feel the Simbruini - 19.05.2007


Al volgere della settimana, mentre si affollano sul telefonino migliaia di sms dall’opaco significato, accartociato sul computer con le idee annebbiate dai quotidiani problemi, affranto da un vita che non concede, arriva senza indugio il sabato che con i suoi raggi di libertà mi restituisce il sorriso.


Sandrello, nella cui mente albergano solo spot in cui far nascere creature degne rivali di quelle prodotte dal genio di Sterling Lawrence, chiama e sentenzia…domani Simbruini! La sentenza passa in giudicato in solo pochi secondi, il pensiero alato corre veloce verso le difficoltà che l’indomani affronteranno le furenti membra assetate di fatica e di roccia carsica.


Immediatamente si cerca di coinvolgere l’Alberto nazionale che per l’occasione ha montato sulla sua bike di cristallo un poderoso gps.. purtroppo il vecio premierà la compagnia con una sonora defezione: non ci scoraggiamo e si prende il via comunque in due.


Si cerca di partire al canto del gallo, ma arriveremo a destinazione con il sole alto a perpendicolo sui nostri caschi.

Il giro è implacabile. Si parte da Camerata Nuova e si comincia a salire. Il posto è spettacolare e il panorama è mozzafiato.

L’aria riempie di serenità le nostre menti, le nostre gambe sono leggere e girano con irriverente cordialità.

Il percorso si inasprisce e un insieme di rocce ci dà il benvenuto nel letto del fiume, ma non è comodo come il materasso di casa. Le sospensioni non bastano ed è la tecnica che fa la differenza.


Al termine uno sterminato pianoro ci ricorda lo spaghetti western, il rumore della ferraglia che ci portiamo appresso completa la magia. Le gambe cominciano i loro silenti lamenti e i crampi concretizzano le nostre sopite paure, l’acqua finisce e la stanchezza annebbia la mente.. spingiamo la bike per una lunga salita senza sosta con una pendenza degna delle imprese di Messner.


La fiducia è svanita e solo la vista delle rovine di montespaccato riaccende le nostre riserve…

Da lì in poi è un delirio, forse troppo breve rispetto alla lunghissima salita affrontata, la discesa è ripida ed infame, i tornanti sono stretti e sotto le ruote le rocce scivolano.

I polsi scricchiolano ma il divertimento non manca il sorriso diventa stabilmente il nostro compagno di viaggio.